Uno sguardo tra ferocia e timidezza

 

Silvia Bottiroli

 

Postanovscik, titolo del nuovo lavoro di masque teatro, è un termine russo, utilizzato anche da Ejzenstejn e Stanislavskij per indicare "colui che è in grado di vedere la forma dello spettacolo" in contrapposizione al régisseur, ossia colui che conduce il lavoro con gli attori.

Lo spettacolo inizia con una porta chiusa. È il portone dell'Orto del Fuoco, sede da due anni di masque, luogo in cui la compagnia quotidianamente lavora, ex filanda e oggi officina, capannone, ufficio, cucina. I pochi spettatori ‑ quindici sono le persone ammesse a ogni replica ‑ aspettano finché qualcuno apre loro il portone. Dentro c'è un'altra porta, oltre la quale si viene guidati dalla luce di una torcia fino a una piccola tribuna montata su binari. II buio, I'intuizione di un mondo ammalato e la traballante stabilità della tribuna hanno il sapore di certe giostre di lunapark, così come la consapevolezza di essere al sicuro accompagnata da una sensazione di pericolo, di attesa emozionata e ansiosa.

Davanti alla tribuna sta una grande vecchia porta a vetri; dietro vi è un letto, oltre il quale cominciano a intravedersi, in una luce molto fioca, attori che eseguono il loro training. Poco dopo, tre di loro vengono accompagnati nel letto: sono un uomo e una donna e, in mezzo, una figura più giovane, loro figlia. In qualche modo, lo spettacolo – uno dei livelli che coabitano lo spettacolo ‑ inizia qui, quando l'uomo si alza, oltrepassa lentamente la porta a vetri e scompare oltre una porticina laterale lasciandola socchiusa. Di lì a poco lo segue la donna. Giunta di fronte alla porta, inizia a parlare a quella che è ormai pura assenza, l'uomo che ancora una volta se ne sta andando, richiamato inesorabilmente dalla Zona: stiamo assistendo alla citazione di una delle scene iniziali del film Stalker di Tarkovskij. Sul finire della scena, mentre la donna si getta a terra in preda alla disperazione, una piccola luce ci permette di vedere, molto oltre la porta a vetri, su di una pedana rialzata, due schermitori ‑ un uomo e una donna ‑ che gareggiano: immagine bellissima di un conflitto deciso da regole ferree, che vedrà un vincitore e un vinto, ma che per sua stessa natura non è mortale.

La tribuna intanto inizia lentamente ad avanzare, incombendo sulla donna che scivola via. La porta a vetri si apre, il letto (su di esso, ora seduta, sta l’attrice‑bambina, lo sguardo perduto e per questo inquietante) retrocede, come chiamando dietro di sé, con forza magnetica, il pubblico. Poi scompare dietro una pesante porta metallica che scende a soffietto dall’alto: barriera oltre la quale non è dato agli spettatori, per ora, entrare. La porta si fa fondale per due azioni, che si svolgono ai suoi lati. Da una parte, sta un corpo composito, formato da un ombrello nero e una vecchia macchina per cucire tra i quali, sdraiato su di una tavola di legno, un uomo: ha uno strano abito femminile, rosa, a balze. Dall'altra parte c'è un tavolino metallico, rotondo: richiamo puntuale al tavolo di bar al quale, in Stalker, lo Scienziato e lo Scrittore hanno appuntamento con l'uomo che li condurrà nella Zona. Due figure sono attorno al tavolo. Dialogano. Mentre un rumore di macchina per cucire si fa sempre più fastidioso, arrivando a sovrastare le loro parole, l'uomo con I'abito rosa, che ora intuiamo possa essere il Postanovscik del titolo, si spinge faticosamente (una sofferenza quasi fisica sembra percorrerlo e non concedergli tregua) vicino a loro, e a ciascuno conficca un chiodo nella schiena. Il suo gesto sembra inceppare un meccanismo, generare una sorta di loop nelle loro parole, che ora si ripetono e diventano intercambiabili, in un girotondo impazzito di discorsi senza senso: immagine feroce della vacuità di ogni discorso, sia esso di arte o di scienza, quando le discipline diventano maschere sottili dietro le quali riparare le proprie pudendae. A interrompere il loro meccanismo, di per sé dotato di moto perpetuo, è il sopraggiungere dello Stalker, che annuncia l'arrivo del treno che li porterà nella Zona. Lo Stalker compare all'interno di quel che potrebbe essere lo scheletro di un ascensore, e da esso trascina verso il fondo il piccolo tavolo, installato su binari, e i due compagni di viaggio. Ormai invisibile dietro il fondale, lo Scrittore pronuncia un monologo, che racchiude in sé una delle ferite dell’opera: parla dei critici (e degli spettatori?) e di come essi divorino, ciechi, tutto ciò che l'artista sa tirare fuori dalla propria anima. È un grido di dolore, voce senza più volto che risuona e riempie di sé il mondo che ci ha accolti, atto d'accusa che investe il pubblico della sua radicale e dolorosa alterità.

La barriera metallica che era scesa a fermare I'avanzamento della tribuna ora si rialza, e si avvicina al pubblico un portale di legno, con una porticina bruciata al centro. Accanto al portale, lo Stalker appare estremamente stanco, mentre, appoggiato al legno scabro, pronuncia una breve poesia e crolla poi come mortalmente vinto ‑ forse dalle sue stesse parole. La porticina bruciata si apre e, prima di richiudersi di scatto, lascia intravedere, in pochi lampi di luce, I'immagine splendida e fuggente di una donna, nuda, che corre dietro a delle oche.

Postanovscik prende sulle proprie spalle la porticina, spalancando al contempo il portale di legno; si avvicina alla tribuna degli spettatori e la sospinge in avanti, fino alla stanza quadrata al cui interno gli attori, ora "indifesi come bambini", si esercitano, insegnandosi l'un l'altro a tirare di scherma, osservandosi, scherzando, a tratti inconsapevoli di quel che stanno facendo, luminosi come cuccioli animali. Postanovscik (che è sulla scena Lorenzo Bazzocchi, regista della compagnia) attraversando la stanza dice loro: "Fate come volete". È questo il cuore, non solo fisico, dello spettacolo: al pubblico è concesso di essere testimone di un'intimità che di norma gli è negata ‑ e che non coincide neanche con il fuori scena, ma è qualcosa di più delicato, come un momento di metamorfosi ‑ ed esso si scopre, per un attimo, a desiderare di essere lì, con gli attori, mentre il proprio statutario voyeurismo diventa fardello.

Gli attori retrocedono poco dopo in una stanza molto piccola, cubo minuscolo e luminosissimo: pronunciano parole l'uno all'orecchio dell'altro, si strattonano, ridono. La tribuna intanto viene risucchiata all'indietro, mentre nella distanza quel cubo diventa un quadrato, splendente e per sempre interdetto se non alla visione.

Lo Stalker va poi a sedere su di una piccola collina di sabbia e, affiancato dal Postanovscik, lancia dall'altra parte della scena un dado metallico cui è legata una striscia di tessuto bianco: è il metodo che il personaggio di Tarkovskij utilizza per determinare la strada da percorrere o da evitare. Al richiamo dello Stalker, una figura, dal fondo, corre su di un'altra piccola collina e vi si sdraia. Lì, come incerta prima di gettarsi nella discesa, pronuncia stentatamente il proprio desiderio: "Felicità per tutti, nessuno uscirà di qui insoddisfatto". Ma la sua corsa è intercettata da due figure, suoi stessi compagni di scena, che sollevano l'esile corpo e lo lasciano poi ricadere, inerte, per terra. La tribuna retrocede ancora, fino alla sua posizione iniziale, accompagnata da uno sguardo, triste e carico di meravigliosa e meravigliata umana compassione, dello Stalker.

Se per poter scrivere di Postanovscik è stato necessario ripercorrerne per intero l'andamento, è perché lo spettacolo si pone come continuum che si rivela solo all'interno del proprio fluire ‑ ed è forse una ulteriore citazione di Stalker, a proposito del quale Tarkovskij scrive di aver lavorato "come se tutto il film consistesse di un'unica inquadratura". L'opera costituisce un mondo autonomo, governato da regole implacabili che si impongono con l'autorità di leggi naturali: la sua morfologia è quella di uno spazio esploso, una terra post‑catastrofica, con schegge di materiali e di senso sparse ovunque, crepe insanabili a squarciarne la superficie. La sua natura residuale e frammentaria fa sì che la costruzione scenica trovi compimento solo nella sua relazione con la tribuna, occhio collettivo che richiama la possibilità di sguardo della telecamera nel cinema, quell'occhio‑bestia (Deleuze) che il Postanovscik tenta di addomesticare, predeterminandone movimenti e prospettive. La sua scelta è quella di un confronto tra due esseri viventi polimorfí: l'occhio-bestia collettivo della tribuna da un lato e, dalI'altro, una scena che continuamente lo attira e lo respinge, lo eccita e lo frena nel suo aprire e chiudere porte, nel suo creare e interdire possibilità di avanzamento.

Masque si misura in questo senso anche con se stessa, rinunciando alle macchinerie meravigliose (proprio nel senso della meraviglia) cui ci ha abituati, per giocare con strutture più tradizionali, quali le pareti che a vista strutturano e destrutturano spazi abitati dalla forte dimensione attoriale, finora non praticata dalla compagnia.

È invece comune agli spettacoli precedenti il carattere metaforico dello spazio scenico, che si dà come territorio di un confronto tra il teatro e il suo contesto: la Zona di Postanovscik altro non è che l'immagine concreta di quella possibilità di esistenza che il teatro offre, con le sue regole anche spietate, con i suoi trabocchetti tutti mortali, con la crudezza della sua verità. Se nel film di Tarkovskij la meta era la stanza in cui viene realizzato il desiderio intimo di chi la raggiunge (e i tre protagonisti vi giungono ma decidono di non entrarvi, perché finalmente consapevoli di quanto sia pericoloso confrontarsi con la propria vera natura), qui essa è il luogo in cui gli attori possono "fare come vogliono", ancora contraddistinti dalla dignità che la scena richiede loro, eppure liberi nell'agire.

Ma lo spettacolo non si chiude qui, su questa possibilità di esistenza forse dolente eppure pacificata. L'ultima scena, tratta questa volta non dal film ma dal romanzo che lo ha ispirato (Pic‑nic sul bordo della strada, dei fratelli Strugatski), è sotto il segno di una sconfitta: I'estrema difficoltà nel pronunciare il proprio desiderio prima e lo strozzamento mortale della corsa poi sono immagine dell'impossibilità non solo di quella felicità inutilmente invocata, ma anche di una corrispondenza dell'uomo con se stesso, dei suoi desideri dichiarati con quelli autentici.

È questo, d'altronde, elemento tematico dello spettacolo tutto, che si fonda su di una stratificazione in cui la forma che si vorrebbe definitiva è continuamente interferita da altre immagini, dettagli che la disturbano o la contraddicono: l'opera è così una sorta di fossile, che porta inscritte in sé la memoria di diverse ere e di profonde trasformazioni, non l'una sull'altra secondo criterio cronologico ma tutte mescolate in un magma semantico ‑ ed è forse un modo per dire che il tempo della creazione non è consequenziale ma extra‑ordinario.

Nel magma della scena, il regista‑Postanovscik si misura con le proprie aporie e le proprie idiosincrasie, con quell'altro che alberga nel sé, con le chiusure e i rifiuti che la propria visione del mondo implica. II confronto con la propria parte oscura si fa allora scelta estetica e teorica di messa in discussione delle proprie modalità formali e operative, e il viaggio cui al pubblico è dato assistere sembra non essere altro che quello affrontato dalla compagnia nel suo spingersi oltre i propri confini e i propri limiti conosciuti, scardinando a mani nude il proprio mondo.