Le armonie di Werckmeister

 

Titolo originale: Werckmeister harmóniák. Regia: Béla Tarr. Sceneggiatura: Béla Tarr e Lázló Krasznahorkai, dal racconto «The Melancholy of Resistence» di Lázló Krasznahorkai. Fotografia: Miklós Gurbán, Erwin Lanzensberger, Gábor Medvigy, Emil Novák, Rob Tregenza, Patrick de Ranter. Musica: Mihály Víg. Montaggio: Ágnes Hranitzky. Suono: György Kovács. Scenografia: Sándor Katona, Gyula Paver, Béla Zsolt Tóth Costumi: János Breckl Interpreti: Lars Rudolph (János Valuska), Peter Fitz (György Eszter), Hanna Schygulla (Tünde Eszter), Mihály Kormos (factotum), Putyi Horváth (Porter), Éva Almássy Albert (zia Piri), Sandor Bese (il Principe), János Derzsi, Djoko Rossich, Tamás Wichmann, Ferenc Kállai, Enikö Börcesök, Irén Szajki, Alfréd Járai, György Barkó (Mr. Nadabán), Lajos Dobák, András Fekete, Gyuri Dósa Kiss, Józsi Mihályfi, Péter Dobai, Géza Balkay, Kati Lázár, Péter Tóth, Lázló Fe-Lugossy, Gyula Paver, Barna Mihók, Viktor Lois ,Béla Máriáss , Matyas Drafi , József Ropog. Produzione: Goëss Film (Budapest), Von Vietinghoff Filproduktion (Berlino), 13 Production (Marsiglia). Origine: Ungheria, Germania, Francia 1996-2000. Durata: 145'. Formato: 35mm, bianco e nero, 1:1,66.

 

(...) Un piano-sequenza di apertura di dieci minuti stupefacente, in cui degli ubriaconi personalizzano i pianeti, il sole, la luna e la terra, e rappresentano per noi il fenomeno dell'eclisse, momento «in cui tutte le luci si spengono per gli uomini e in cui tutto sembra perduto». La rappresentazione avviene sotto la direzione del personaggio centrale, Jonás, giovane uomo innocente e sprovveduto, un semplice distributore di giornali in questo villaggio da cui non ne usciremo mai, e che non verrà mai nominato. Dall'inquietante bellezza delle immagini del film, che segnano profondamente e in modo durevole con la loro lentezza ipnotica e la loro precisione ossessiva, dalla presenza e singolarità dei volti che appaiono sullo schermo, noi non verremo a conoscenza di nulla.

Béla Tarr coltiva con cura il segreto della sua ispirazione: «Voi potete parlare di Kafka e di Dostoleski, o anche di mitologia, ma in realtà ciò non ha alcuna importanza. Noi non pensavamo al mito di Giona durante le riprese. Ora che le persone me ne parlano, riconosco che il rapporto è strano. Ma noi volevamo semplicemente fare un film su un tipo molto aperto, che avverte ma non comprende bene quello che succede attorno a lui, perché è innocente. Egli ama le persone, ama l'universo e ha un vecchio amico, con il quale ha una relazione molto forte. Questo vecchio amico suona il piano e riflette sulla musica, e questo è importante.» Eszter, in effetti, sommità artistica del villaggio, vive recluso, ossessionato dall'idea di riparare agli errori di Andréas Werckmeister, che ha spezzato il rapporto della musica con il divino. Né Jonás né Eszter potranno alcunché contro la catastrofe annunciata. Contrariamente a ciò che potrebbe far temere l'atmosfera da setta leggermente paranoica che circonda Béla Tarr, la maestà tenebrosa del film non è mai annientante, ma al contrario, misteriosamente abitabile e amichevole. Alla fine di quegli scivolamenti della macchina da presa, che si potrebbero credere realizzati proprio da una balena, che porta in giro il suo occhio ingombrante e pieno di compassione per la tragedia umana, di fronte a questo perfezionismo che vuole lasciare ogni immagine lavorare in maniera omeopatica nel cervello dello spettatore, si è portati a pensare a Kubrick. La ragione più profonda è senza dubbio un sentimento tragico e diffuso, presente in tutto il film, che la Storia è di sicuro quella degli uomini, ma che essa non appartiene loro per niente. Essi sono semplicemente attraversati da lei, magnetizzati. I movimenti umani, apparenti e ingannevoli, nascondono placche telluriche sotterranee che si spostano lentamente e delle quali è possibile solo percepire il prossimo boato. Gli uomini sono gli attori disgraziati di una scena che è loro preesistente, e che sarà recitata di nuovo sotto altre forme. Le armonie di Werckmeister volta la schiena al montaggio classico, produttore di effetti drammatici di riflesso, per mettere in gioco piani-sequenza molto lunghi, che hanno senso per se stessi. Poiché ogni piano è un mondo: i personaggi vi abitano letteralmente, lì si incontrano, si separano e si sente che i loro destini si legano in maniera sempre più crudele. In uno dei momenti più belli, il saccheggio di un ospedale, scopriamo alla fine del piano il personaggio di Jonás nascosto in un angolo. Non si sapeva che era spettatore inorridito, incapace di muoversi. Il tempo, l'irrimediabile ha compiuto in lui la sua opera. (Pascal Richou, «Cahiers du cinema» n. 547, giugno 2000)

 

In Le armonie di Werckmeister il confronto fra il quotidiano violento dei personaggi e la ricerca che fa l'uomo sul segreto dell'armonia, è una forma di rappresentazione del mondo? Quando faccio un film non penso troppo ai significati che ci possono essere. Non c'è niente di "ideologico", un mio film non è una dimostrazione sull'arte o sulla filosofia, anche se è frutto di un ragionamento e di un lavoro molto lunghi. Quello di cui sto parlando sono le situazioni della vita, quel che conta è quanto poi si vede sullo schermo. Il mio è un modo di lavorare assai primitivo. Devo individuare qualcuno, una situazione fisica e capire come mostrare alle persone cosa sta succedendo tra altre persone.

Nel film si parla molto di questa "falsa" armonia che regola, da un certo punto in poi, la musica occidentale.

E' molto semplice, è la storia della musica che comincia con Bach e che si chiede: come fare a suonare con il piano ogni musica? II piano infatti tra i due tasti bianchi ha bisogno di averne due neri. Ma ora ce n'è uno solo. E' un trucco, che è stato fatto perché in questo modo si può suonare tutto col piano, è una specie di compromesso, e se ci pensi il piano è quasi uno strumento falso. II violino non lo è e così molti altri strumenti. Ne ho parlato con diversi musicisti perché non riuscivo a capire ed è questo che mi hanno detto, che è appunto un "normale compromesso", che fa parte della cultura europea degli ultimi 300 anni. E' la civiltà, è come viviamo. Per me però non è tanto questo il punto. Ciò che mi interessa, è la relazione che esiste tra il ragazzo protagonista e il maestro di musica, perché nel ragazzo c'è una ricerca di purezza rispetto al mondo, rispetto a questa vita "esterna" che sta andando avanti.

Tutti i luoghi del tuo cinema danno un'idea di indefinitezza. Dove hai girato Le armonie di Werckmeister?

 In posti molto diversi, ma mi interessa trasformare i luoghi, possono anche essere dietro l'angolo, però io non cerco il realismo. Mi piace che diano l'impressione di essere luoghi di confine, come è l' Ungheria.

Da cosa viene, nei tuoi film, la scelta del bianco e nero?

E' molto più colorato del colore.

(Estratti di un'intervista a cura di Cristina Piccino, «Alias» del 30 giugno 2001)

 

L'occhio della balena. Puro e arcaico: il film di Béla Tarr Le armonie di Werckmeister

Alla metà circa di questo film, Peter Fitz, che interpreta la parte di Eszter, un uomo anziano appartenente all'alta borghesia ungherese, legge da un foglio una relazione, scritta per una trasmissione radiofonica, in cui si dice all'incirca che l'intero universo è stato rovinato nella sua armonia interiore dal sistema di ottave creato da Andréas Werckmeister, in base al quale ancora oggi viene scritta e suonata la musica da noi, e che la divisione in dodici semitoni ha distrutto il suono puro di cui tutte le cose e gli esseri sono dotati. Se si vuole che il mondo torni ad essere in ordine bisogna eliminare il sistema di Werckmeister.

E' di questo che si tratta: il vibrare del mondo, l' armonia delle cose, che naturalmente non esiste, perlomeno non qui, non oggi, non in Ungheria, non nell'Europa dell'Est dopo le guerre del secolo scorso. Ma che forse una volta è esistita. In una grigia epoca primitiva, nelle profondità del mare. Per questo la balena. L'enorme occhio senza vita con il quale osserva gli uomini che pagano qualche fiorino per poter accarezzare la sua pelle ricoperta di cicatrici e tesa su di un piedistallo di legno, dà l'impressione di essere un relitto di questo passato antecedente al pensiero, un gorgoglio spento in cui una volta si rifletteva la luce del paradiso.

Una piccola città in Ungheria, alla fine degli anni Novanta. I manifesti annunciano l'arrivo di una grande attrazione: una balena imbalsamata, l'animale più grosso di tutti i tempi e il suo accompagnatore, il "principe", uno gnomo gracchiante, di cui nel film non si vede mai la faccia, che rigurgita oscure maledizioni. Si vede solo la sua ombra e quello che le sue parole causano agli uomini. La piazza del mercato su cui si affollano masse di persone ribolle, la città si incendia. Un ospedale viene saccheggiato e devastato. I morti giacciono lungo le strade. Il giovane che vende i giornali (Lars Rudolph) e suo zio, che si crede il Salvatore del mondo, sembrano essere le ultime persone normali rimaste. La zia cattiva (Hanna Schygulla) si getta invece nelle braccia delle autorità militari del posto. Un ricordo di Fassbinder ci colpisce in questa apocalisse ungherese come un fulmine, quando Hanna Schygulla, come décadence in pelliccia, è ferma ad un blocco stradale con Jeep e carrarmato. Allora era «Lili Marleen». Adesso è guerra civile.

Il film è una metafora della secolare battaglia tra la barbarie e la civiltà, ha dichiarato il regista Béla Tarr in un'intervista. E' però una formula troppo facile per il contemplativo cinema della decadenza di Tarr, per la lentezza carica di panico con la quale ripetutamente in Perdizione (1987), in Sátántangó (1994) e Viaggio nella pianura ungherese (1996), il regista misura l'inferno ungherese. Dimentichiamoci quindi subito di questa formula. Parliamo piuttosto della telecamera. In altri film la telecamera sostituisce lo spettatore, è uno strumento che agita e dimena i personaggi, e che a volte chiacchiera e discorre con loro. Nei film di Béla Tarr la telecamera è l'occhio di Dio, l'occhio dell'universo, l'occhio della balena. Quello che vede non è una storia qualunque, è l'eterna storia del mondo. La catastrofe in cui sfocia questa storia non è una delle possibilità date dalla sceneggiatura, ma l'unica. Allo stesso tempo, lo sguardo della telecamera scorge nel turbine cacofonico di quanto accade anche la sua bellezza. Nei film in bianco e nero di Tarr non c'è disposizione all'orribile, vi sono solo immagini perfette dell'orribile. L'orrore e la forma che lo domina, la dissonanza del mondo e l'armonia divina della contemplazione divengono in Tarr tutt'uno.

Trecento anni fa, sostituendo gli intervalli tonali matematicamente puri con intervalli impuri, ma più piacevoli all'orecchio, l'organista Andreas Werckmeister ha ricreato la musica. E' così nato «Il clavicembalo bentemperato» di Bach. Béla Tarr è invece nemico del temperato. La sua arte si irradia in una gelida e arcaica purezza. Solo i soggetti, come quelli di Le armonie di Werckmeister generalmente creati da Lázló Krasznahorkai, dividono una storia di immagini dalla successiva. L'atmosfera della narrazione rimane invece sempre la stessa. Questo immobilismo può risultare estenuante, ma nasconde anche immagini di fantastica intensità. All'inizio di Le armonie di Werckmeister, Lars Rudolph aggiusta in un'osteria i moti del sistema solare con una frotta di ubriaconi derelitti. Li fa girare attorno l'uno all'altro finché non inciampano nei propri piedi. A questo punto la macchina da presa retrocede e svela l'immenso squallore del luogo. Poi si blocca. Per un attimo il film trattiene il respiro. E' come se su questo mondo cadesse un raggio di luce non terrestre. Poi il mondo precipita di nuovo nell'oscurità. Ma questo attimo non si dimentica. (Andreas Kilb, «Frankfurter Allgemeine Zeitung» 10/02

   
click to enlarge